La Storia
Il Teatro del Vigentino nasce il 30 settembre del 2005, su un’area ricca di storia ed emozioni, con l’intento di creare dal vecchio un nuovo luogo di espressività, libera, per tutti.
E’ la casa dell’improvvisazione teatrale a Milano, con i corsi e gli spettacoli.
L’atmosfera è unica, come uniche sono le persone vi arrivano, restano, partono.
Si respira un’aria di casa, perché le storie del passato ne sono l’anima
Siamo presenti nel libro di Stefania Aleni direttrice del mensile QUATTRO "A SUD DELLO SCALO ROMANA - Vocazioni e suggestioni di un'area in trasformazione" novembre 2017
Mio padre Claudio racconta:
“La storia di Vigentino per i Cremonesi comincia dal mitico nonno Antonio, vostro bisnonno.
Nato nei dintorni di Lodi nel 1859 da famiglia poverissima, fin da piccolino cominciò a lavorare venendo a Milano sui carri che di primo mattino, partendo a notte fonda, portavano in città frutta e ortaggi. Il bisnonno raccontava che, accovacciandosi su una specie di trespolo dondolante che i carri usavano avere sul davanti per trasportare il fieno per i cavalli, dormiva finché arrivato gratis a Milano si arrangiava a fare il manovale per qualsiasi lavoro richiesto. Evidentemente aveva della stoffa perché, nonostante fosse privo di qualsiasi istruzione, poco a poco accettando qualsiasi lavoro si fece strada.
Ottenuto qualche prestito da amici che evidentemente di lui si fidavano, riuscì a mettersi in proprio con un’azienda di deposito e trasporto prima di legname, poi anche di carbone e successivamente di nafta da riscaldamento (allora il gasolio ancora non si usava per il riscaldamento).
Probabilmente all’inizio del novecento acquistò una vecchia cascina agricola nell’attuale Via Matera 5, che allora però era circondata da marcite a prato, e poco a poco la trasformò in deposito con stalle per i cavalli. Le stalle erano nel cortile dell’attuale No. 5 (il cui piano superiore era aperto e adibito a deposito di fieno) mentre tutto il grande cortile del No. 7 era adibito a deposito. Tutti i lati verso Via Foggia e Via Barletta erano coperti a tettoia.
La particolarità della ditta Antonio Cremonesi era che si limitava a tenere in deposito e trasportare in città i combustibili per conto terzi, facendone oggetto di commercializzazione diretta solo del tutto saltuariamente. Infatti molte ditte anche di un certo peso trovavano conveniente, anziché mantenere un proprio deposito ed i mezzi di trasporto relativi, limitarsi all’ aspetto commerciale affidando le attività sopraddette alla ditta Cremonesi. Questo aspetto si mantenne fino alla fine anche perché nel frattempo la città si era espansa e sarebbe stato praticamente impossibile per una nuova società installare al suo interno un deposito di una certa dimensione. Anche il comune, specie dopo l’ultima guerra, non avrebbe certamente rilasciato nuove autorizzazioni per non intasare, all’ interno della città, il traffico cittadino con i grossi autotreni per il trasporto in particolare dei combustibili liquidi.
La zona di Vigentino era strategica perché nel vicino scalo ferroviario di porta Romana arrivava, oltre a tante altri merci, gran parte del carbone per Milano. Vale la pena di ricordare che i riscaldamenti centrali sono una soluzione relativamente recente, le vecchie case ancora dopo l’ultima guerra erano riscaldate con stufette autonome, con i relativi rischi di incendi.
I barboni degli scali formavano una specie di compagnia autogestita i cui membri si dividevano equamente i lavori, in modo che tutti potessero guadagnare qualche lira per mangiare e più spesso per bere. Non ho mai assistito ad alcuna discussione al riguardo. Era una combriccola quanto mai eterogenea. Accanto a chi era barbone da una vita vivevano molti che invece avevano conosciuti tempi migliori; era facile imbattersi in ex-professionisti o laureati o campioni di sport che per le più diverse ragioni, spesso tragiche, si erano lasciati andare e vivevano alla giornata accontentandosi di affogare nell’ alcool le loro pene. Ma era considerato assolutamente vietato chiedere della loro vita passata e i compagni mantenevano una riservatezza assoluta, nessuno si sarebbe sognato di fare domande indiscrete. Solo per caso di qualcuno sono venuto a sapere dei precedenti (durante gli studi infatti saltuariamente lavoravo in azienda sia come facchino che autista dei camion elettrici) e ci sarebbe da scriverne dei romanzi.
Una delle attività di cui il bisnonno era fierissimo era l’appalto per il comune di Milano, durante l’estate, dell’innaffiamento delle strade sia per ridurre le polveri (molte strade secondarie ancora nell’ultimo dopo guerra erano in terra battuta) che per rinfrescare l’atmosfera. Anche di questo si preoccupavano gli amministratori di allora! I cavalli portavano sulla fronte una piastrina in ottone con inciso per traverso il nome Cremonesi (in corsivo), io li ricordo perfettamente e ne ero fierissimo.
Per questo servizio i carri usati erano i cosiddetti marnoni, io almeno così li ho sempre sentiti chiamare probabilmente con voce dialettale, che sono carri a due sole grandi ruote utili perché, staccando il cavallo dalle stanghe, queste automaticamente si sollevano scaricando il carico.
Credo verso il 1930 al trasporto a cavalli cominciò ad affiancarsi anche quello con i camion elettrici (io ne ricordo cinque). Le batterie dei camion elettrici durante la notte venivano caricati in Via Matera 5 da appositi convertitori, che facevano tremare tutto l’edificio. I camion potevano essere attrezzati sia con cassoni (per il trasporto di legna e carbone) che con cisterne per la nafta. Questi camion furono utilizzati fino alla chiusura della società ben oltre la fine dell’ultima guerra quando ormai anch’essi erano del tutto superati.
Lo stesso bisnonno per i suoi spostamenti aveva acquistato una enorme vettura elettrica, che sembrava una antica carrozza nobiliare, che non passava certo inosservata. Questa vettura era chiamata normalmente il Bucefalo ed era condotta da un affezionatissimo autista, detto Pasqualino, con tanto di divisa e berretto. Ricordo che le mie sorelle raccontavano come il bisnonno si ostinasse a farle portare a scuola con il Bucefalo anche se queste, di fronte alle compagne, si vergognavano terribilmente di questa antidiluviana e mastodontica vettura con tanto di autista in livrea. Il Bucefalo fu messo in disarmo solo poco prima dell’ultima guerra.
Quando il bisnonno lasciò il lavoro l’azienda restò famigliare e l’attività fu continuata prima da due e poi da uno zio più mio padre, tuo nonno.
Nel febbraio del ’42, durante uno dei primi grossi bombardamenti notturni su Milano, alcuni spezzoni incendiari incendiarono l’attuale Matera 5. Mio padre accorso in bicicletta da Viale Sabotino dove abitavamo (noi ragazzi con la mamma eravamo da poco sfollati in Valcava, paesino delle prealpi bergamasche), dovette darsi da fare coadiuvato dal sopraddetto Pasqualino, per salvare i cavalli e spegnere l’incendio. Mio padre Cesare arrivava dall’ appartamento in Viale Sabotino dove pure erano caduti alcuni spezzoni incendiari ma, mi raccontava, che decise di salvare il deposito perché da questo dipendeva il pane, lasciando al suo destino l’appartamento. La beffa fu che nell’appartamento era stato imballato tutto il possibile che il mattino successivo con i carri sarebbe stato trasportato al sicuro fuori Milano, ma le bombe arrivarono prima e tutto fu distrutto. Noi restammo con i soli vestiti che ci eravamo portati in Valcava. Mio padre raccontava come l’incendio cominciato dal tetto continuò per tutta la notte e solo alla fine raggiunse il nostro appartamento; se qualcuno fosse stato sul posto avrebbe avuto tutto il tempo per portare gran parte delle casse e dei mobili in istrada.
Un altro ricordo di quei tempi oscuri riguarda una famiglia di amici ebrei che vivevano a Milano. Il nostro amico si chiamava Raoul Elia e, come il padre, era rabbino.
Raoul era affetto di una grave malattia, la sclerosi multipla, che gli impediva di camminare, mentre il padre era molto vecchio e intrasportabile. Quando nel settembre del ’43 arrivarono i tedeschi, la situazione per gli Elia si fece gravissima. Chiusero tutte le imposte come se la casa fosse abbandonata e la portinaia fornì loro le chiavi di un appartamento vicino i cui proprietari erano sfollati per i bombardamenti. Il responsabile della polizia locale si mise d’accordo con la portinaia: quando ricevevano l’ordine di perquisire l’appartamento degli Elia, le telefonava con una frase convenzionale, questa aveva il tempo di avvisare gli Elia che così si rifugiavano nell’ appartamento vicino. Gli agenti potevano dichiarare di aver trovato l’appartamento vuoto. Per incredibile che possa sembrare, la cosa funzionò per oltre un anno e mezzo, fino alla liberazione. La cosa che mi è risultata oscura è che i contatori della luce e del gas funzionavano, ma nessuno diete atto di accorgersene.
Durante la forzata prigionia, il vecchio padre Elia morì. Un medico dovette stilare l’atto di morte e nel Cimitero Ebraico al Monumentale fu preparata la fossa, ma nessuno avvertì le autorità. Mio padre Cesare procurò un carro per trasportare la salma. Caricata la salma, mio padre non se la sentì di lasciare che questa attraversasse Milano senza che nessuno la accompagnasse, quindi seguì il feretro. Arrivati sul piazzale del Monumentale, a guardia del cimitero ebraico vi era un milite di qualche milizia fascista. Come vide mio padre, lo apostrofò chiedendogli cosa facesse. Alla risposta di mio padre, il milite gli disse di scappare e di non farsi più vedere. Cosa che fece immediatamente.
Questo era vostro nonno Cesare.
Io ero l’unico erede maschio di tutta la famiglia ma, ottenuta la laurea, altri erano i miei interessi professionali e l’azienda fu chiusa e l’area affittata ad altra impresa sempre del ramo.”
E la storia continua:
Finita la guerra e con la morte del nonno Cesare avvenuta il 20 ottobre del 1950, l’area venne affittata ad una azienda che commerciava combustibili e lubrificanti oltre che ad una piccola fonderia. L’affitto era l’entrata per la nonna rimasta vedova. Alla morte della nonna Esther avvenuta nel 1995, si decise di vendere.
I due cortili si presentavano come due spianate di terra e cemento con una grande pesa in mezzo (per pesare i camion) e diversi serbatoi.
I fabbricati erano anneriti dai fumi della vecchia piccola fonderia, con poche aperture, bui, fatiscenti, pieni di vecchi macchinari, ferraglie, putrelle e rottami di vario genere. Il terreno venne bonificato.
Il cortile al n°3, con i due portici laterali dove vi erano la stalla e sopra i fienili, venne venduto e riconvertito dai nuovi proprietari in unità abitative rispettandone le caratteristiche strutturali. Di particolare interesse sono le pavimentazioni interne ed esterne fatte con “il fiore del novecento”, un pavimento che si trova nei vecchi cortili delle città della Lombardia, del Piemonte e della Liguria.
Il cortile al n°5/7 venne invece acquistato a piccoli pezzi da un gruppo di amici, tra cui due delle nipoti Cremonesi, Isabella e Francesca, che mantenendone la struttura ed i muri esterni originali in mattoncini rossi, riconvertirono l’area comune in un grande prato con alberi da frutto, una grande quercia, cespugli di lavanda, glicine rampicante, rose e un'orto. I fabbricati divennero studi, abitazioni ed un piccolo Teatro, il Teatro del Vigentino.
Oggi il cortile è uno spazio comune molto vissuto e molto amato, dove i residenti del complesso si ritrovano, fanno giocare i bambini, i cani ed i gatti.
Isabella Cremonesi